Attività poliedrica per la città: ricordando il maestro Mario Matteotti.
Si chiude, dunque, ad età veneranda la vicenda terrena del maestro Mario Matteotti. Lo ricordo,…
sabato, 12 Ottobre 2024
Si chiude, dunque, ad età veneranda la vicenda terrena del maestro Mario Matteotti. Lo ricordo,…
Giovedì 10 febbraio scorso ho accolto l’invito pervenutomi dal Sindaco Cristina Santi ed ho partecipato alla breve cerimonia di deposizione di una corona d’alloro alla stele inaugurata in tale occasione a lato del cartello stradale che indica il ‘Largo Caduti delle foibe’.
Si trova nelle immediate adiacenze della chiesa di San Giuseppe a Rione Degasperi, all’inizio della breve salita dedicata all’illustre musicista monsignor Celestino Eccher.
La cerimonia civile del 10 febbraio è stata partecipata dal Sindaco, dal Presidente del Consiglio comunale, da componenti della Giunta municipale, dai rappresentanti dell’Esercito, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, della Polizia locale, dai rappresentanti di diverse sezioni dell’Associazione nazionale alpini, dai Vigili del Fuoco volontari. Inoltre, erano presenti alcuni concittadini e concittadine, tra i quali ho potuto incontrare -dopo diversi mesi- anche il rag. Bruno Santi, già Sindaco della città all’inizio degli Anni Settanta del secolo scorso. Con lui ho poi trascorso qualche tempo in ameni conversari, riandando a diversi momenti e casi dell’esperienza amministrativa locale.
La cerimonia era la modalità scelta dalla Civica Amministrazione per celebrare la ‘Giornata del Ricordo’, istituita per legge all’inizio di questo secolo per ricordare ogni anno la doppia tragedia consumatasi tra la metà degli Anni Quaranta e la metà degli Anni Cinquanta del secolo scorso nella regione più orientale d’Italia: migliaia di persone uccise e gettate nelle foibe carsiche e centinaia di migliaia di persone fuggite dalle terre giuliane e dalmate e giunte profughe in tante regioni italiane.
Cerimonie analoghe a quella rivana si sono svolte in altre città: mi limito a citare Trento, dove, oltre alla cerimonia al monumento ai Caduti delle foibe di viale S. Francesco, si è tenuta pure una commemorazione nel Palazzo municipale, con quel Sindaco a presiedere entrambe.
Fu, mi pare, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a togliere con decisione e convinzione la polvere ideologica dal ricordo di quegli eventi, chiamando le diverse vicende col nome proprio e non giustificando, né nascondendo, nulla di tanta tragedia umana e di popolo. Così anche gli studi storici (in tempi recenti ben documentati anche dalla televisione nazionale) ci hanno offerto ricostruzioni minuziose e convincenti sia delle stragi compiute dai partigiani titini, sia dell’odio etnico verso gli italiani di quelle terre, sia del tentativo di rimozione della memoria di stragi e di persone compiuto per anni per interessi di parte, sia del tentativo di appropriarsi di quegli eventi per interessi di parte opposta.
Oggi la storiografia ci permette, dunque, una visione complessiva e sintetica di quei momenti decisamente, appunto, tragici.
E’ tempo, ormai, di ricomporre la memoria collettiva, senza rinunciare ai propri valori e ideali di riferimento, ma con la consapevolezza che l’Italia potrà procedere nel tempo con lo slancio, con la forza e con la consapevolezza delle nuove generazioni solo se sapremo comprendere il passato per quello che è stato, non per quello che vorremmo fosse stato. Togliere il velo ideologico e la comodità del sentito dire dalle nostre ‘prese di posizione’ (magari espresse con strumenti di comunicazione non consoni alla tipologia delle circostanze) potrebbe favorire quello sforzo di capirsi e di rispettarsi reciprocamente, sul quale soltanto può innervarsi uno stile e un modello politico democraticamente compiuto.
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La proposta di intitolare uno spazio urbano ai Caduti delle foibe venne, se non sbaglio, dall’allora consigliere comunale Aurelio Delaini (approdato politicamente in Forza Italia da una precedente esperienza socialista): egli pensava ad una ubicazione diversa, ma prevalse quella a Rione Degasperi per la vicinanza delle vie Trieste, Pola, Zara, che meglio aiutano a contestualizzare geograficamente e storicamente il Largo ‘Caduti delle foibe’.
Attorno al cartello stradale, che indica tale Largo, ogni anno, nella ricorrenza, la nostra Amministrazione comunale ha sempre fatto comporre una cornice d’alloro con il nastro civico. Ogni anno, con la medesima puntualità, ai piedi di quel cartello è stato posto anche un mazzo di fiori con il nastro tricolore da parte di un partito politico di precisa connotazione: non mi risultano sgarbi reciproci, almeno sinora.
Ricordo ora la figura di un altro consigliere comunale di molti anni prima: il liberale Silvio Drago, sulla scena politico amministrativa locale negli Anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Egli fu protagonista di un episodio, ricordato anche dal sacerdote nell’omelia pronunciata al suo funerale. Episodio connesso all’esodo giuliano dalmata: un giorno sostò in piazza ‘Tre novembre’ una corriera, che trasportava verso ignote destinazioni uomini e donne esuli da quelle terre: mani provvide si protesero verso di loro offrendo generi di sussistenza. Il dottor Drago si tolse il cappotto di valore e di elegante fattura, che indossava, e lo passò direttamente ad uno dei profughi affacciato al finestrino.
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In quest’epoca di migrazioni drammatiche possiamo ben capire cosa fu quell’esodo. Senza dimenticare che questa nostra stessa città di Riva del Garda ha pure accolto alcuni nuclei familiari di esuli da Pola e da quelle terre, facendone propri concittadine e concittadini. Senza dimenticare, inoltre, che questa nostra stessa città di Riva del Garda ha vissuto sulla pelle della propria popolazione -durante la Prima guerra mondiale- analoga esperienza dell’essere profuga.
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Concludo trascrivendo il testo del prof. Ernesto Galli della Loggia, pubblicato sul quotidiano ‘Corriere della sera’ il 7 febbraio scorso con il titolo significativo: ‘Italiani d’Istria e Dalmazia, nostri fratelli’. Mi pare possa aiutare a leggere con occhi diversi quelle tragiche vicende e a dare, quindi, un senso peculiare alle cerimonie civili del 10 febbraio, ‘Giornata del Ricordo’.
“” Ormai sono solo poche migliaia (anche se i loro figli e i figli dei figli conservano una memoria che non svanisce) ma tanti anni fa, nel 1947 erano la bellezza di 350 mila. 350 mila italiani d’Istria e Dalmazia da generazioni – quindi non trasferitisi a Zara o a Pola o ad Abbazia perché istigati dal duce, che anzi fu la causa prima della loro rovina, ma messi lì da secoli di storia – i quali a un certo punto abbandonarono tutto ciò che possedevano per ritrovarsi nella misera condizione di profughi.
Protagonisti di un esodo che ogni 10 di febbraio finalmente ricordiamo, e destinati poi ad essere ospitati per anni qua e là nella Penisola dalla micragnosa e svogliata carità della loro patria. Nessuno certo li costrinse con la forza. Semplicemente non se la sentirono di vivere sotto il governo del Maresciallo Tito dopo aver assistito alla feroce caccia all’uomo da parte dei suoi partigiani; dopo aver assistito alle orripilanti esecuzioni nelle foibe di molti italiani, fossero pure fascisti; dopo aver saggiato il clima di persecuzione dei nuovi padroni verso qualunque cosa sapesse d’Italia.
Se oggi fosse chiesto a un gruppo di nostri concittadini chi nei loro panni a quel tempo avrebbe fatto una scelta diversa di sicuro non vedremmo alzarsi molte mani.
Eppure, nel 1947 in tanti, accecati dall’ideologia, accolsero quei profughi con disprezzo e dileggio trattandoli da venduti, da nemici del popolo quelli che invece erano proprio null’altro che un popolo, un popolo di reietti strappati dalla loro cultura. In Italia, dopo l’odio e lo scherno dovettero sopportare anche la simpatia fin troppo interessata di chi li adoperò per assurdi confronti, di chi li voleva vittime di un qualche olocausto.
Loro che invece erano solo degli italiani, solo per questo costretti a lasciare la loro terra. Che erano – si sarebbe detto un tempo senza vergogna – solo dei nostri fratelli.””